L’olivo è una delle piante più iconiche del bacino del Mediterraneo, profondamente intrecciata con la storia, l’economia e la cultura dei popoli che hanno abitato la regione negli ultimi millenni. Ma come ha fatto questo albero, una delle molte specie selvatiche del Mediterraneo, a diventare un simbolo universale del paesaggio e delle culture che vi abitano?
Un recente studio coordinato dal Dipartimento di Scienze Ecologiche e Biologiche (DEB) dell’Università degli Studi della Tuscia in collaborazione con l’Università di Pisa, L’Università di Roma La Sapienza, il Max Planck Institute of Geoanthropology e l’University of Nevada, fa luce sullo straordinario percorso dell’olivo negli ultimi 3700 anni in Italia meridionale. Lo studio, pubblicato su “Quaternary Science Reviews” rivela come l’interesse nei confronti di questa pianta si sia sviluppato nei popoli indigeni della Sicilia orientale già nel XVIII secolo a.C., secoli prima di quanto precedentemente ritenuto.
Analizzando campioni di sedimento provenienti dal Pantano Grande di Messina, uno dei due laghi salmastri nel distretto di Ganzirri, i ricercatori hanno portato alla luce numerosi resti fossili di polline utili a ricostruire le pratiche di utilizzo del suolo e delle risorse naturali dei popoli che hanno occupato l’area duranti gli ultimi 4000 anni circa.
I risultati rivelano che la pianta d’olivo era già sfruttata durante l’Età del Bronzo Antico-Medio. Le antiche culture siciliane, come quelle di Castelluccio e Thapsos, avrebbero avuto un ruolo attivo nella propagazione dell’olivo, il quale veniva utilizzato non solo per estrarre olio, ma anche per la legna da ardere e il foraggio per gli animali.
“Uno degli aspetti chiave dello studio è il legame tra l’attività umana e l’espansione dell’olivo -selvatico e successivamente coltivato – durante gli ultimi 4 millenni”, spiega Jordan Palli, Ricercatore di Ecologia e Paleoecologia dell’Università della Tuscia e primo autore della ricerca, “la storia dell’olivo in Sicilia non segue un semplice percorso di espansione continua, bensì un andamento complesso influenzato da cambiamenti sociali, economici e ambientali in cui il ruolo principale è giocato dagli interessi umani fin da tempi antichi”.
Di fatti, dopo un periodo di prosperità durato circa cinque secoli, in concomitanza con una massiccia eruzione dell’Etna le cui ceneri sono state rinvenute fino in Albania, il crollo delle reti commerciali egee e varie turbolenze sociopolitiche nella regione, anche il sistema colturale basato sull’olivo collassa arrivando quasi a scomparire dal paesaggio. La coltivazione dell’olivo sarebbe poi tornata in epoca romana e successivamente in epoca moderna, diventando un sistema colturale diffuso su larga scala dal tipico connotato paesaggistico.
Oggi il paesaggio ad oliveti del Mediterraneo è riconosciuto come patrimonio bio-culturale internazionale. “Questa ricerca rimarca l’importanza strategica nella transizione ecologica degli oliveti storici dove si rinvengono alberi ultracentenari, veri e propri hub di biodiversità e sostenibilità”, aggiunge Gianluca Piovesan, docente di Dendroecologia dell’Università della Tuscia, “la tutela degli antichi oliveti ha quindi il duplice obiettivo di salvaguardare un bene storico-culturale, che connota il paesaggio Mediterraneo, e di conservare una risorsa unica di alberi vetusti la cui gestione da parte dei popoli indigeni dell’Italia meridionale affonda le radici molto prima della Magna Grecia”.
La storia dell’olivo è una testimonianza dell’antico e duraturo rapporto tra uomo e natura, e dimostra come le nostre scelte possono influenzare gli ecosistemi naturali per migliaia di anni.
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